



antologica, napoli castel dell'ovo 2003
Gigiotto del Vecchio
Il lavoro di Umberto Manzo, indipendentemente o forse in virtù della continua maturazione avvenuta nell’arco di vent’anni, ha in sé un animo austero e popolare nella cui indole la più alta tradizione linguistica, dotata di spirito narrativo, sceglie le immagini per testimoniare la propria storia.Nato artisticamente al principio degli anni Ottanta, Umberto Manzo parte dalla pittura forte ed espressiva di quel momento privilegiando colori accesi e tratti aggressivi per mutare via via, scegliendo una intensa riorganizzazione strutturale del proprio percorso, attraverso un effetto visivo falsamente pacato, falsamente freddo: le armonie cromatiche svelano l’essenza della terra, della sabbia, le oscurità notturne di uno spirito guerriero da novello Ulisse partenopeo. La pittura di Manzo è fedele alla propria natura: pur avvalendosi di molti strumenti, in primis la fotografia, ma anche l’installazione di natura scultorea, l’artista dipinge il secolo e per meglio raccontarlo mischia i linguaggi, li fonde ma non li confonde, dando vita ad opere in cui anche l’innovazione tecnica è figlia di un’osservazione, di uno sguardo ancora «classico», non solo nella riproposizione formale del frammento interiore, ma anche nella fedeltà ad una purezza estetica rigorosa ed innovativa al contempo. I corpi ritratti da Manzo, perfino il suo laddove si autoritrae in fotografie dalla vaga eco narcisistica, non sono simboli spersonalizzati o archetipi: nel momento in cui raccontano un unico oggettivo, questi affermano il peculiare nella sua sovrana totalità…e la totalità si compone, oggi più che mai, di tante piccole asimmetrie che nessun marmo può più occultare…tra molte pitture piegate, archiviate, dimenticate e forse non perdonate, salta fuori un busto, un braccio o un arto, e lo sguardo incontra nel dettaglio e nell’incompiuto la compattezza, la definizione della modernità.L’opposizione fra l’uno ed il molteplice ha carattere numerico, oscilla fra la definizione ed una indefinitezza che sfocia nel work in progress del possibilismo. Unire molte esperienze lasciando ad esse la propria individualità ed un senso di solitudine permette, al tutto non voluto di cui l’opera è fatta, di dialogare - espandendosi in più direzioni, viaggiando su molte strade, toccando tutti i punti cardinali - con il proprio passato, d’ipotizzare l’evoluzione ventura. Quando Umberto Manzo propone se stesso come soggetto dell’opera fa, inoltre, un’operazione dal delicato sapore performativo: che sia mischiato ad altri disegni o che sia “installato” su superfici non lineari, il corpo nudo dell’artista è esposto ed è proposto in pose plastiche mai congelate. La sensazione del movimento persiste, il corpo fluttua dalle pareti all’interno dello spazio espositivo occupandolo. La consapevolezza dei propri limiti fisici, limiti in cui ogni essere umano dimora, crea nel soggetto ritratto leggere contorsioni, spasmi muscolari, ma anche sospensioni ed attese: all’immagine, talvolta, manca qualche tassello, porzioni di materia le sono negate e forse è proprio lì che il limite viene abbattuto, in questi piccoli buchi neri che permettono al corpo di concepire un ulteriore «luogo» interno la cui eco è eco dell’anima. Le teche in cui Umberto Manzo chiude i suoi dipinti contengono mondi, colori e sfumature che somigliano al vivere quotidiano dell’individuo insieme agli altri individui: inferni privati che sembrano «il paradiso guardato dall’altra parte»1 , solitudini, stasi o estasi contemplative, l’improvvisa confusione, l’assoluta certezza e l’uomo solo, che domanda a se stesso e agli altri quale sia il limite della comunicazione, sentendosi monade, ma pur sempre parte di un tutto. Che Umberto Manzo, la cui produzione brilla sulle altre perché contiene in sé tanto della tradizione novecentesca, con una spinta verso il domani che nessuna lettura a ritroso potrà mai negare, sia intimamente un artista classico, è evidente non solo se lo si pensa partenopeo, considerando che Napoli conosce il mito, lo ha vissuto nel passato e continua ad esplicitarlo attraverso mille contraddizioni che non riescono ad avvilire un sentimento rigorosamente estetico dell’esistenza - nel suo panorama i grandi di ogni tempo hanno riconosciuto l’antica Grecia e le deità meridionali, hanno sentito il respiro dell’Odissea - ma soprattutto se si considera quanto gli sia vicina quella lettura che della classicità e del mito fanno la psicanalisi e soprattutto la filologia: ogni storia nella sua autosufficienza cela il proprio opposto, la perfezione comunica verso l’interno, offrendo di sé soltanto simulacri, la vita si lega al sacrificio e all’uccisione, le immagini, talvolta, non richiedono illuminazione perché contengono da sole sia la luce che la vista. Così come la dimensione temporale ha un ruolo definito, considerando che il tratto pittorico, ma anche altre scelte stilistiche di Umberto Manzo, ci riportano volutamente ad altri momenti della storia dell’arte, allo stesso modo la riflessione sulle proporzioni spaziali in cui l’opera - ed implicitamente l’uomo - si colloca, in riferimento a quanto la circonda, ma anche a quanto la compone, ha un valore da non sottovalutare. Le teche, le cornici e la disposizione dei disegni nello spazio ad essi assegnato testimoniano l’inclinazione alla ricostruzione di un ordine - cosmico, architettonico o morale - che è necessario e funzionale all’espressione di proprie personali leggi di collocazione, d’organizzazione dinamica. Alcune teche, ad esempio, contengono opere dell’artista, fogli di carta sui quali può esserci un disegno, una macchia di colore, una fotografia emulsionata o altro, ma la disposizione all’interno delle «scatole» non è sempre la stessa: talvolta un copioso numero di fogli è piegato ed impilato, in ordine l’uno sull’altro, lasciando intravedere poco di sé, meglio ancora celandosi allo sguardo ed alla curiosità altrui senza però negare la propria intima verità e ragione d’essere, strana documentazione segreta, prodotto cartaceo che occulta l’arte ed i suoi abissi; altre volte i fogli sono aperti, magari sono pochi, quattro o cinque ed occupano in verticale diversi livelli all’interno della teca. Quelli più vicini al vetro si impongono come protagonisti, quelli più arretrati sembrano ombre sfuggenti, la cui sostanza non può essere carpita. Allo stesso modo i quadri in cui Manzo ha ritratto le silouhettes di statue classiche poste su piedistalli di metallo che fuoriescono dalla tela, testimoniano il suo interesse per l’uomo e per l’imperdibile essenza dell’uomo: l’ombra che lo accompagna lungo il sentiero della vita, a spasso con la morte.La teca si conclude solo apparentemente con l’archiviazione: si entra, piuttosto, in una dimensione in cui il ricordo occupa attivamente lo spazio, è empiricamente percepibile. «Che cosa volevano, allora? Essere riconosciuti. Ogni riconoscimento è visione di una forma. Perciò si può dire, nel nostro lessico debilitato, che il loro imporsi era innanzitutto estetico. Ma quell’estetica era proprio ciò di cui si è, col tempo, frantumato il senso: un involucro di potenze raccolte in una figura, un corpo, una voce»2
1 Umberto Eco, Il nome della rosa.
2 Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia.